È il venerdì del vetro ghiaccio sulle strade di molte città emiliane e del Nord Italia. Arrivo trafelata al Teatro Comunale di Bologna, la sala è già gremita, tanto che all’ingresso vengo subito impietosamente disillusa: “Non abbiamo più copie da distribuire”. È così che la presentazione del “Rapporto Symbola 2016 Io sono Cultura” inizia con una piccola grande delusione.
Prendo posto dentro la sala e inizio ad ascoltare gli interventi. Come da secolare tradizione, parte l’elenco inesorabile e dettagliatissimo di dati numerico-statistici riportati su schermo in scala 1:2000 a supporto degli altissimi valore & impatto della cultura sull’economia nel nostro Belpaese.
Al Sistema Produttivo Culturale e Creativo (industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive, produzioni creative-driven) si deve il 6,1% della ricchezza prodotta in Italia (sul 100%...è tanto, è poco, è abbastanza?), ovvero 89,7 miliardi di euro. I quali, per un effetto moltiplicatore X pari a 1,8, ne generano altri 160,1, per arrivare a quei 249,8 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, il 17% del valore aggiunto nazionale. Anvedi!
Tocca adesso a Vilma La Clav Mazzocco, manager di Sida Group – sponsor della ricerca – che erige la cultura a “bene immateriale generativo che crea un substrato di fiducia sul quale appoggiare le dinamiche imprenditoriali”, segnalando altresì l’urgenza di soddisfare non uno, ma ben due bisogni primari. La cross innovation per la nascita di tecnologie abilitanti da un lato, e una nuova formazione per i futuri operatori dall’altro.
Mi accarezza sempre il cuore chi cita ancora l’istruzione come requisito decisivo per il nostro futuro, ma non faccio in tempo a pensare “Brava Wil..” quando all’improvviso una grossa nuvola nera incombe sulla sua testa cotonata facendo presagire una violenta tempesta: il nuvolone in questione si chiama Master per “Nuovi/Futuri Operatori/Operai della Cultura” (sottotitolo: “sì, ma in un’altra vita”) promosso proprio da Sida Group.
A questo non tanto vago excursus autopromozionale, segue un elogio mascherato da timido ringraziamento agli studenti del suddetto master presenti in sala, per il semplice fatto di essere lì e non a farsi 2 spritz in Piazza Verdi in orario extracurriculare. Viiilma Viiilma ma cosa mi combini?
Inizio a guardarmi intorno. Invano lancio sguardi alla ricerca di empatia almeno tra i presenti. Ma la sfilata di presentazione procede e io sono d’accordo nell’andare oltre.
La palla passa a Claudio Balestri, Presidente Gruppo Oikos, che fa il punto sulla necessità di una sostenibilità per le imprese culturali (“Ah è vero che esistono i soldi”) e quindi di un business chiaro ma sensibile, severo ma giusto. Stringo i denti quando parla dello scontro titanico tra il costo dei biglietti di ingresso ai musei negli USA e quelli in Italia, benché “loro non abbiano quello che abbiamo noi” e inizio a pregare tra me e me a mani giunte: “Ti prego, fa che nessuno nomini “Made in Italy”: smetto definitivamente di fumare, lo giuro!”.
E invece, come una lancia sferzata a tradimento nel buio, ecco che dietro al microfono intravedo inarrestabile sul labiale dell’architetto Mario Cucinella il famigerato e tanto temuto “carattere italiano”. Sfioro l’attacco di panico sulla frase “in un altro paese non sono fatti di quella materia lì…” e inizio a prendere in seria considerazione l’idea gettare la spugna, alzarmi e correre a dedicarmi a uno sfrenato shopping di seconda mano in Montagnola. Ma ecco che all’improvviso, inaspettatamente, lo stridio cede il passo al suono armonioso di frasi composte e sensate come “Fare impresa nel mondo della cultura è un atto di responsabilità e generosità e, tra le altre cose, necessita di capacità di visione nel tempo”.
Ri-provo sempre invano a cercare sguardi di approvazione tra il pubblico, ignara dell’esplosione alla quale ero lì lì per assistere. Una bomba a orologeria era stata innescata quando ero ancora a Parma intenta a non rompermi il coccige tra i ghiacci e io non lo sapevo.
“La risorsa più scarsa in Italia sono le I D E E”.
OMG, Cucinella for President! Finalmente un po’ di sana e dichiarata autocritica in questo paese pieno di tradizione autocelebrativa che nessuno sembra saper o poter davvero valorizzare, rendere intellegibile, monetizzare. Avere una storia lunga tremila anni portare nel sangue il gene geniale e creativo, realizzare imprese che hanno cambiato o quantomeno influito sull’impostazione culturale e oserei dire mentale dell’umanità: a cosa è servito tutto ciò se gli altri non lo sanno, e se noi per primi non siamo ancora in grado di assegnargli un valore?
Questa presentazione si sta rivelando un’escalation di emozioni: mi manca solo recuperare una copia cartacea del Rapporto a fine mattinata per calmare la mia vena accumulatrice ed essere veramente felice per almeno 60 minuti consecutivi.
Ma, a posteriori, riflettendo ore e anche giorni dopo, in quel momento la mia presenza all’interno della sala del Teatro Comunale di Bologna non aveva ancora acquisito un senso compiuto. Questo perché LUI non aveva ancora preso parola. Lui CHI ?
LUI: Mauro Felicori, Direttore della Reggia di Caserta. Il segno, il motivo, l’intervento illuminante che mi ha ricongiunto alla fede da appassionata di cultura, a tratti vacillante, a sprazzi miscredente.
Esordisce davanti al microfono ripetendo una cifra, che rimbomberà per diverso tempo nel mio cervello: 3,5…3,5…3,5.
Sì, 3,5 è la percentuale rappresentata dal patrimonio italiano sull’impatto culturale nel paese: in sostanza “La ricchezza prodotta dal patrimonio culturale in Italia è pari a 0”. Questo, mi viene da pensare, in risposta anche a chi inorridiva pensando ai prezzi americani e inglesi per entrare in un museo dove “non c’è niente”. E ricadiamo sempre sulla stessa buca durante il tragitto che dalla nostra nascita imbocchiamo per tornare a casa: finché non valorizzi ciò che hai mentre ce l’hai, è come se non l’avessi mai avuto.
Mr. Felicori è ormai partito per la tangente, non lo ferma più nessuno e io sto pendendo dalle sue labbra. Ho sempre avuto stima di chi approfitta delle cerimonie ufficiali e pubbliche per dire la sua guardando negli occhi chi lo ascolta (e chi non vorrebbe ascoltare). Molto più difficile così che non rimanendo dietro la tastiera di un computer, in una qualsiasi battaglia virtuale a suon di commenti su una qualsiasi rete sociale.
Rammaricato, ricorda tristemente che quando in Italia uscirono i concorsi pubblici per rinnovare i direttori museali in carica, si aprì il dibattito sulla necessità per i futuri cultural bosses di possedere o meno doti manageriali. Il direttore di un museo paragonato a un manager d’azienda? Che assurdità. Eppure adesso siamo tutti seduti e composti davanti (anzi, dietro) una schiera di personalità che hanno appena pubblicato uno studio per dimostrare che la cultura fa impresa nel nostro paese. (della serie Di cosa stiamo parlando?, in uscita su Netflix questa primavera).
In tutto questo, io sono sul punto di scaricarmi un’app in grado di emulare applausi stile sit-com anni ’90 americana o quiz pre-tg della tv italiana dei giorni nostri: e bravo Feliz.
A questo punto, l’altro trend topic del momento (quelli che se non li pronunci muori) dopo il meidinitali fa la sua comparsa in scena: l’Europa. Ma a Feliz lo stereotipo gli fa un baffo: dichiara quasi testualmente di averne trovato nel rapporto Symbola una lettura debole e ordinaria, che dà per scontato che l’Europa in termini di “cultura” faccia quello che deve fare.
Ormai io ho le lacrime agli occhi per la commozione davanti a cotanta sincerità, schiettezza, provocazione. Ed è in quel momento che Mauro Felicori riesce a farmi davvero palpitare il cuore. Lo fa ripartendo dall’affermazione del suo predecessore al microfono Cucinella, a proposito dell’attuale scarsità di idee in Italia. “Sì, da noi mancano le idee. Ma, all’interno del dibattito culturale, oggi manca anche la politica. Quando la finiremo di accendere dibattiti semplicemente esortativi e inizieremo la vera lotta alle idee? Quando individueremo il vero nemico? La rivoluzione è in atto, ma è solo all’inizio.”.
In quell’istante, la mia mente e la mia anima escono dal mio corpo, a metà tra Patrick Swayze in Ghost e Annie Hall quando nell’omonimo film di Allen le viene proibito di fumare erba prima dell’amore.
Mi vedo sul podio della cultura (rigorosamente al terzo posto, perché al primo c’è Felicori e al secondo un qualsiasi dipendente pubblico di qualche museo di provincia) a testa bassa e con il braccio teso in avanti in segno di vittoria. Mi vedo prendere parte a comizi sovversivi, segreti, motivando le persone a non essere mediocri perché ognuno nel suo piccolo può cambiare le cose, se ci crede davvero. Mi vedo continuare a fare quello che faccio, sempre meglio, contribuendo a piccoli passi a che la cultura generi impatto e utilità sociale.
A nulla valgono le parole e i numeri forniti dall’Almamaterano Antonio Taormina sulla “disoccupazione della cultura” o il pitch di Andrea Viadotto sul business model di Vivaticket. Felicori mi ha conquistato, ed è grazie a lui che mi sono ricordata del perché mi trovavo lì, al Teatro Comunale di Bologna, a setacciare angoli, mensole e sedie alla ricerca di una copia cartacea del Rapporto Symbola. Perché credo nell’efficacia delle singole azioni quotidiane sull’impatto umano universale a difesa di quel nemico che è la scarsa consapevolezza di sé nel mondo e l’ignoranza.
Facendomi compatire da tutti i concierge del Teatro, recupero miracolosamente una copia del rapporto rubandola nientemeno che al direttore di Symbola. Il cerchio si è chiuso, la missione è compiuta.
Torno a casa ispirata notando che finalmente il vetro ghiaccio sulle strade si è sciolto.